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  • Immagine del redattoreCamilla Ferrario

Intervista a Caimi&Piccinni

Intervista realizzata a Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni durante l'esposizione PRÉSENCE/ABSENCE a INTERZONE GALLERIA, dal 21 gennaio al 31 gennaio 2022

Jean-Marc Caimi, Valentina Piccinni
Valentina Piccinni e Jean-Marc Caimi

Camilla Ferrario: Da tanti anni lavorate in duo, perché questa scelta? Come ci siete arrivati?

Caimi&Piccinni: Il nostro primo incontro è avvenuto nel 2013, lavorando insieme su “Daily Bread”, un progetto a lungo termine di Jean-Marc. Era necessaria una persona esperta che organizzasse ed editasse una grande quantità di negativi, di foto scattate in quattro anni. Valentina lavorava come curatrice e la sua visione del progetto è subito apparsa quella giusta e così si è cominciato a collaborare. Insieme abbiamo realizzato il dummy book e individuato alcuni spazi espositivi a cui proporre il progetto. Così Daily Bread è diventato un libro per l’editore T&G Publishing ed una mostra per Interzone, Vasli Souza Gallery (Svezia) e Reminders Photography Stronghold (Giappone). Ci è sembrato che il team funzionasse molto bene e abbiamo deciso di provare a realizzare un progetto documentaristico insieme, questa volta entrambi come fotografi. Da quella prima esperienza abbiamo capito molte cose riguardo le maggiori opportunità che si hanno lavorando in duo. Dalla fase ideativa e organizzativa, al contatto delle fonti, fino a quella realizzativa sul campo e di post produzione e comunicazione da studio. Da allora abbiamo concluso una trentina di progetti a quattro mani.


CF: Ci raccontate la genesi dei vostri lavori? Come li gestite? C’è una divisione dei ruoli? Cosa fa funzionare così bene la vostra “squadra”?

C&P: Una cosa molto importante è la visione fotografica comune. Sappiamo entrambi molto bene cosa vogliamo ottenere da un progetto fotografico, quali foto scattare, in che modo farlo e in che direzione emotiva ed estetica muoversi. Il materiale che otteniamo dalle foto di entrambi è molto compatto e coerente. Questa “sincronizzazione” è avvenuta sin da subito in modo naturale per poi affinarsi nel corso del tempo e dei lavori svolti. I nostri ruoli sono fluidi. Sul campo possiamo scattare entrambi oppure a turno occuparci, ad esempio, delle luci. Essere in due, inoltre, ci facilita molto in ciò che caratterizza principalmente il nostro approccio fotografico: entrare in contatto con le persone e innescare subito una “relazione” di fiducia. Crediamo che essere una donna e un uomo rassicuri i nostri soggetti, li faccia sentire più facilmente a proprio agio, e questo ci permette di entrare in modo più disinvolto nelle vite di coloro che stiamo raccontando.


CF: Ognuno mantiene la propria individualità e unicità di visione o dopo tanti anni insieme siete diventati “intercambiabili”?

C&P: Esistono delle specificità di ognuno, ma fanno parte del risultato finale. Valentina è naturalmente più portata all’editing, Jean-Marc ai testi, Valentina più al montaggio dei video nei lavori multimediali e Jean-Marc al comporre le musiche. Dal punto di vista prettamente fotografico per noi è importante che i lavori che firmiamo insieme siano unici e riconoscibili come duo. Nessuno sa chi ha scattato quello o quell’altra foto e per noi poco importa. Alle volte non ricordiamo neanche chi ha scattato cosa.


CF: Spesso presentate le vostre immagini accostate, creando dei dittici. Come funziona il senso delle vostre opere?

C&P: I dittici funzionano per noi come un amplificatore sensoriale di ciò che le immagini mostrano. Sono elementi rivelatori e allo stesso tempo portatori di enigmatiche ambiguità. Innescano una sorta di reazione chimica per cui l’incontro/scontro delle immagini si rivela ben più complesso che la mera “somma” delle singole foto. Foto prese in luoghi differenti e che raffigurano situazioni e persone estranee tra di loro, se accoppiate creano un surplus di significato che sfugge al nostro controllo e che fa leva sull’inconscio. Crediamo che indurre un cortocircuito di senso tra immagini permette alle stesse di rivelare una maggiore carica simbolica stimolando l’immaginazione e la curiosità di chi guarda. L’idea di base è quella di far sì che l’osservatore si ponga delle domande, senta la necessità di ritornare sulle immagini senza mai sentire appagata la sua voglia di guardare e di proiettare il suo immaginario su ciò che vede.


CF: Tra i vostri lavori più famosi ampio spazio è dedicato alle città, alle “metropoli in transizione”. A cosa è dovuto l’interesse per questo tema?

C&P: Le città sono i contenitori più incredibili della varietà umana, che sono sempre il punto di partenza dei nostri lavori. Abbiamo realizzato sino ad oggi una trilogia: “Forcella” (Napoli), “Rhome” (Roma) e “Güle Güle” (Istanbul). Le metropoli in transizione sono quelle che esprimono la più grande energia sia in senso positivo, che negativo sfortunatamente. Gli stravolgimenti sociali, politici ed economici scardinano le consuetudini ed espongono la vulnerabilità dell’essere umano. Paure, speranze, forze, debolezze, gli estremi si toccano e rendono l’esplorazione fotografica e documentaristica necessaria e rivelatrice. Sono occasioni uniche di avere una visione che prescinde da sovrastrutture e convenzioni sociali ormai saldatesi nel quotidiano. È l’occasione di capire le diverse nature delle persone e la meravigliosa diversità dei microcosmi nei quali si sono rifugiati.


CF: Vi definite fotografi documentaristi. Una domanda provocatoria: in un mondo in cui ormai per ogni evento ci sono centinaia di cellulari pronti a riprendere e siamo bombardati da un surplus di informazioni, ha ancora senso parlare di fotografia documentaria, di reportage?

C&P: Molto dipende da quali sono i confini che si applicano a ciò che si considera un linguaggio fotografico documentaristico. Crediamo che la moltiplicazione degli input e delle possibilità tecnologiche debba essere capita, utilizzata piuttosto che subita. La fotografia sta espandendo i suoi orizzonti e così anche il modo di poter raccontare le storie. Ultimamente, costretti anche dalle restrizioni imposte dalla pandemia, abbiamo realizzato due storie (una sui teenager in quarantena e l’altra sul ruolo dei social media nel mondo Islamico) unicamente ri-fotografando lo schermo del computer, reportage nei quali noi non “eravamo lì” fisicamente. A nostro avviso, limiti e potenzialità si intersecano dando vita ad un nuovo panorama di opportunità e creatività all’interno della fotografia contemporanea. Per noi questi lavori sono stati una vera e propria rivelazione delle infinite potenzialità che ci sono offerte dal momento storico che stiamo vivendo.


CF: Al centro dei vostri lavori c’è la necessità di rappresentare argomenti contemporanei, con particolare attenzione agli aspetti umani di ogni storia, alle persone dietro ai grandi eventi. Ci spiegate meglio come avete pensato di rappresentare la situazione - a dir poco particolare - in cui ci troviamo attualmente?

C&P: Come accennavamo nella risposta precedente, in questi ultimi mesi abbiamo realizzato due lavori in “remoto”.

Per “Quaran-Teen” abbiamo contattato un gran numero di ragazzi da tutto il mondo (Italia, Cina, Marocco, Stati Uniti, Belgio, Germania, Inghilterra, Tanzania, Spagna) in isolamento forzato per la quarantena, costretti in casa. Le videochat fatte con Zoom o Whatsapp che abbiamo avuto con loro sono servite da finestra sulla loro intimità, sui loro luoghi della quarantena. Usando gli stessi mezzi attraverso i quali restavano in contatto fra loro e con la scuola, abbiamo realizzato un intero lavoro di reportage composto da fotografie scattate da remoto e dalle risposte all’intervista a cui abbiamo sottoposto i ragazzi. Stesso approccio per “Lockdown Ramadan”, focalizzato sul crescente ruolo che i social media, in particolare i live di Facebook e Youtube, hanno all’interno di micro e macro comunità religiose. Abbiamo avuto accesso a realtà di ogni remoto angolo del pianeta che stavano vivendo il loro mese di digiuno, preghiera e riflessione, per la prima volta in forma privata, impossibilitati a frequentare la Moschea. Siamo entrati virtualmente in contatto in tempo reale con mondi sconosciuti, con Imam dai pochi seguaci fino a quelli seguiti da folle oceaniche.

Se non fossimo stati costretti dalla pandemia e ripensare il nostro quotidiano probabilmente non avremmo fatto esperienza delle potenzialità di questo nuovo modo di fotografare da remoto e documentare ciò che accade nel mondo in virtuale presenza.



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